Enna, una provincia in macerie
L’ex provincia di Enna, nei fatti, è un ente in dissesto, in macerie sotto i colpi della riforma e del prelievo coattivo. Per formalizzarlo ufficialmente, secondo alcune indiscrezioni che abbiamo raccolto, manca solo la firma del commissario, considerato che il dirigente contabile ha già presentato la relazione relativa alla situazione finanziaria dell’ente, supportata dai revisori dei conti, dalla quale si evince che le entrate finanziarie sono minori dalle uscite. Per cui, aleggia, sulla testa di cittadini e lavoratori dell’ente, lo spettro di una mannaia grazie alle due riforme, quella di Crocetta e quella Delrio e quello “scippo” istituzionalizzato che è il prelievo forzoso voluto dal governo Renzi.
Senza nessun trasferimento da parte della Regione, come se sulla ex provincia si fossero accaniti una tempesta ed un terremoto, giusto per essere sicuri che di erba non ne potesse crescere più. “Siamo in una situazione deprimente – affermano i lavoratori – e cosa ancor più grave non si intravede una via d’uscita. Abbandonati, senza prospettive, si continua a bruciare un notevole patrimonio di esperienza con la conseguenza che scuole, strade e quant’altro, stanno andando alla deriva”. In realtà, quanto sta succedendo non solo a Enna, ma anche nelle altre province, non si tratta di “sciagure naturali” ma di sciagure tutte umane, perché la riforma Crocetta l’ha votata la precedente Ars, la riforma nazionale delle ex Province targata Delrio l’ha votata il precedente governo, così come il prelievo forzoso delle Imposte provinciali terroriali e delle RCA auto; e il governo attuale non sta muovendo un dito, mentre le 9 province siciliane versano nelle casse di Roma la bellezza di 220 milioni di euro l’anno. Insomma, dopo aver tolto poteri e funzioni alle ex Province, nel 2015 è arrivato il colpo finale: il prelievo forzoso, che è un po’ come quello che accadeva nel medioevo quando passava lo sgherro al soldo del nobile proprietario.
Adesso in Sicilia tutti gridano all’abolizione della Delrio e del prelievo e a Roma fanno finta di non sentire. Nutriamo qualche dubbio sull’iniziativa del presidente della Regione, Nello Musumeci, per aver convocato i parlamentari nazionali eletti in Sicilia e le parti sociali per cercare di attuare una strategia comune con l’obiettivo di giungere subito all’emanazione di un decreto legge sugli enti locali che elimini il meccanismo del prelievo forzoso che ha portato al collasso le ex Province dell’isola. Temiamo che Musumeci, il quale nel settembre dell’anno scorso ha snobbato il premier Conte nella sua prima visita ufficiale a Palermo, non avrà nessuna risposta dal governo gialloverde, che in verità non aspetta altro che si affoghi con le sue stesse mani, perché il suo governo regionale non è allineato con nessuno dei due partiti. Sia la Lega che il M5S non hanno finora fatto assolutamente nulla per la Sicilia, anzi, si apprestano a mettere nell’angolo il governo Musumeci.
Che da Roma arrivino solo impegni quando il precipitare della situazione impone di accelerare i tempi affinché all’Isola possa essere riservato lo stesso trattamento delle altre regioni d’Italia, dove i bilanci delle ex Province godono di un ristoro significativo da parte dello Stato, ne è la prova. Vorremmo sbagliarci, ma Musumeci non avrà nessuna collaborazione dal governo nazionale, che anzi aspetta alla finestra. Per salvare le ex Province serve una mobilitazione complessiva, servono manifestazioni eclatanti che vedano insieme tutti. Il prelievo forzoso, lo ripetiamo, è la cosa più scandalosa degli ultimi anni. Mantenerlo equivale a continuare a mettere in ginocchio la Sicilia. I Comuni sono al collasso, se si uccidono anche le ex Province si torna indietro ai tempi del feudalesimo. Se i sindaci ennesi vogliono contribuire a questa battaglia, lo facciano insieme ai dipendenti, non com’è avvenuto recentemente quando hanno disertato il Consiglio comunale di Enna, convocato per discutere delle iniziative da intraprendere per salvare dal baratro la Provincia ennese. I partiti, o quel che ne resta, devono portare avanti questa battaglia trasversalmente perché non è una questione di bandiera, ma di sopravvivenza delle voci del territorio. Se riduciamo il nostro futuro a beghe tra capetti di periferia, allora vuol dire che ci meritiamo di essere veramente trattati da mentecatti dal resto d’Italia.