La risposta del dramma letterario scritto dal ventenne Karol Wojtyla
E se Giobbe perdesse la pazienza?
Karol Wojtyla era nato a Wadowice in Polonia il 18 maggio 1920. Molto prima di essere il grande Giovanni Paolo II, fu studente, operaio, artista e poeta. Il suo cammino di formazione fu segnato dall’occupazione nazista della Polonia e dagli studi letterari presso l’Università di Cracovia, distrutta dalla ferocia dei nazisti. Fu ordinato prete nel 1946 e nel suo ministero dovette affrontare l’oppressione del regime comunista; sofferenza che formerà la sensibilità del futuro Giovanni Paolo II e che approderà alla Lettera Apostolica Salvifici Doloris dell’ 11 febbraio 1984. Mentre venne bombardata la sua università di Cracovia, il giovane Karol si salvò, perché impegnato a lavorare nella miniera della Solvay.
Di notte si ritrovava con gli amici a scrivere e a leggere: da questi incontri nacque il dramma Giobbe, scritto nel 1940, e altri scritti letterari e poetici. Per Wojtyla-drammaturgo, Giobbe, l’uomo giusto che soffre senza un perché, rappresentava la sua Polonia distrutta, vinta dai nemici, ma rappresentava anche la parodia di ogni “uomo giusto” che non riesce a dare una risposta al male che deve sopportare. Il dramma letterario fa riferimento alla storia biblica dell’Antico Testamento, dedicata all’omonimo personaggio Giobbe, la cui stessa etimologia ebraica del nome dice la sua natura di odiato e perseguitato.
Giobbe era un uomo buono e giusto che non aveva mai oppresso i deboli e che serviva Dio giorno e notte nel sacrificio vivente di una vita santa. «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?», ironizza Satana di fronte al Signore, convinto che l’anima profonda dell’uomo fosse mossa solo da interesse personale. La scommessa divina verterà proprio sul tema dell’amore gratuito e della retribuzione, lasciata alla bontà misericordiosa di Dio e non al merito delle opere. Giobbe da un giorno all’altro, in un crescendo drammatico, perde tutto: anche i figli. Ma perché, Signore? gli chiede Giobbe, dapprima paziente (“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”) poi sempre più impaziente: perché, o Signore, in questo mondo i malvagi prosperano e i buoni intristiscono? Nel Giobbe biblico c’è Dio che parla; Dio risponde a Giobbe, nel capitolo trentottesimo, e gli ricorda la sua piccolezza creaturale mettendo a tacere le sue domande e ricolmandolo di ogni benedizione; nel Giobbe di Wojtyla Dio è assente, appare solo con il volto di Gesù Cristo, unica risposta sensata e incarnata alle domande dell’uomo.
Per il testo di Wojtyla Gesù Cristo non da risposte, non annulla la drammatica esperienza umana del limite e della sofferenza, però “redime”, “prende” nella sua natura divina le domande “umane” e li purifica dall’inganno della retribuzione. Sembra attuale tale riflessione in questi tempi di pandemia, ove si cerca disperatamente un capro espiatorio o un responsabile. Si passa dal valutare tale condizione come “giusto castigo di Dio per correggere l’uomo”, all’esperimento virale sfuggito di mano dei ricercatori di Wuhan in Cina, passando dall’alternarsi delle colpevolezze politiche.
Al di la di ogni indagine, la verità antropologica è che l’uomo dinanzi alla sofferenza cerca sempre un motivo per cui vale la pena viverla. Il dramma di Woytila risponderebbe anzitutto ribaltando la domanda: non tanto perché soffrire,quanto piuttosto per chi soffrire. L’opera di Woytila risponderebbe con un nitido e sereno: non lo so! Però, immediatamente dopo, ricorderebbe la vicenda redentiva di Gesù Cristo. Lui, il solo giusto che ha sofferto come ciascun’uomo e come l’ultimo degli uomini condotto da innocente al supplizio più infamante; Lui la sola risposta. “Dal dolore si innalza una nuova legge – scrive il giovane Karol Woytila nell’introduzione della sua opera – solo Cristo grazie al dolore erige il nuovo e ingrandisce ciò che era vecchio. Se non c’è una trascendenza religiosa, l’altra possibilità che rimane è il concetto che il mondo è assurdo”.
Nel frontespizio del dramma Giobbe, il giovane scrittore Karol Wojtyla scrisse anche: “Queste cose accaddero nell’Antico Testamento, prima della venuta di Cristo. Queste cose stanno accadendo nei nostri giorni, nel tempo di Giobbe, della Polonia e del mondo forgiato dalla sofferenza”. Parafrasando tale affermazione, mentre ricordiamo il quindicesimo anniversario della morte di San Giovanni Paolo II, possiamo dire che il dramma di Giobbe continuerà sino alla fine del mondo e sino a quel giorno, l’unica e sensata risposta, sarà l’esperienza del Figlio del Padre.