Main Menu

Riflessioni a margine di un documento

La conversione pastorale della comunità parrocchiale

“La conversione pastorale è uno dei temi fondamentali nella “nuova tappa dell’evangelizzazione” che la Chiesa è chiamata oggi a promuovere, perché le comunità cristiane siano sempre di più centri propulsori dell’incontro con Cristo” (n.3)

Così recita la nuova istruzione della Congregazione per il Clero “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, pubblicata lo scorso 20 luglio 2020,  che invita le comunità parrocchiali a “uscire da sé stesse” proponendo strumenti per un coraggioso cambiamento, anche strutturale, orientato a uno stile di comunione e di collaborazione. Già al n.1 del documento si rimanda alla necessità di cercare strade nuove “affinché il Vangelo sia annunciato” e nei numeri successivi si ricorda la natura missionaria della parrocchia – casa in mezzo alle case – e il suo ruolo specifico all’interno di un determinato territorio: portare il Vangelo ad ogni uomo raggiungendo tutti.

Il documento fa riflettere sull’accresciuta mobilità e sulla cultura digitale che ha dilatato i confini dell’esistenza umana imponendo alla parrocchia di superare i vecchi criteri di appartenenza meramente legati alla residenza o al domicilio. Il legame con il territorio tende ad essere sempre meno percepito e la fede potrebbe perdere quella visibilità tipica della concretezza della vita. Nello stesso tempo però la parrocchia rimane un’istituzione imprescindibile per l’incontro tra il Signore Gesù e il suo popolo all’interno di una comunità visibile e reale (n. 122) .

Dopo il tempo di lockdown generalizzato sul territorio nazionale della scorsa primavera, si è più volte osannata la possibilità di “partecipare” alla celebrazione dell’Eucarestia tramite un collegamento social anche in tempi ordinari. Se questa modalità è stata di grande aiuto durante quel periodo, di norma non può costituire un criterio di vera partecipazione ne di appartenenza. La partecipazione alla S. Messa o la stessa preghiera comunitaria deve avere il crisma della comunità e la concretezza della relazione interpersonale fatta della corresponsabilità che nasce dalla gioia e dalla fatica dell’incontro (anche con distanziamento e mascherine!).

L’istituzione parrocchiale permette tutto questo ma chiede una presenza ecclesiale più matura e capace di “stare” in una realtà complessa. Dinanzi a questi mutamenti “veloci e imprevedibili”, la Comunità cristiana è invitata ad operare un discernimento comunitario, cercando di guardare la realtà con gli occhi di Dio, comunione di amore, e non perdendo di vista l’essenziale della fede: la vita in Cristo che diventa annuncio cristiano. Ruolo determinante in tutto questo processo è dato a noi presbiteri e alla ricomprensione della nostra identità a partire dall’appartenenza al popolo santo di Dio: “insieme ai fedeli laici essere “sale e luce del mondo” (Mt 5, 13-14), “lampada sul candelabro” (cfr. Mc 4, 21), mostrando il volto di una comunità evangelizzatrice, capace di un’adeguata lettura dei segni dei tempi, che genera una coerente testimonianza di vita evangelica”  (cfr. n.13). 

Per essere concreti e seguendo le provocazioni che partono dai 124 numeri che compongono il documento, possiamo immaginare di trovarci di fronte ad un territorio nuovo, senza strade tracciate, ma con una bussola in mano: le linee di orientamento che indicheranno la direzione del nord magnetico – immaginate la freccia che si muove all’interno della bussola – sono le seguenti: 

La realtà è superiore all’idea: la parrocchia non è più “centrale”

«La realtà è superiore all’idea» è uno dei postulati che guidano il pensiero di papa Francesco. Ne ha parlato esplicitamente nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium affrontando il tema del bene comune e della pace sociale (n. 217-237) postulando quattro princìpi: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Questi concetti li ritroviamo anche nel documento sulla parrocchia applicati alla realtà pastorale e al rapporto tra clero e fedeli laici.

Non essendo più, come in passato, il luogo primario dell’aggregazione e della socialità, la parrocchia è chiamata a trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali attività” (n. 14). Ecco la prima realtà – mutata rispetto al passato – che il documento mette in rilievo, insieme ad una diversa considerazione del senso di appartenenza. Dire che tale realtà antropologica è superiore all’idea (ideale!) di parrocchia, vuol dire metterci in ascolto della storia e viverla come sfida e non come cura palliativa dinanzi alla drammaticità di una malattia incurabile o peggio ancora come attacco alla stessa identità ecclesiale.

Altra realtà che si impone a noi è la seguente: “il territorio non è più solo uno spazio geografico delimitato, ma il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche. È in questo “territorio esistenziale” che si gioca tutta la sfida della Chiesa in mezzo alla comunità” (n. 16). Il documento ci esorta a non vivere rimpiangendotempi gloriosi passati e mette in guardia circa la proposta di attività che non hanno nessuna incidenza nella vita. Pur non disperdendo il grande patrimonio storico delle tradizioni che hanno aiutato il popolo santo di Dio a dare visibilità storica alla fede, occorre parlare il linguaggio degli uomini e non soltanto togliere un po’ di polvere a reperti archeologici, cercando di far rivivere scheletri di dinosauri. Avere il coraggio della creatività iniziando a seminare semi nuovi, accettando il fallimento e il tempo necessario per la fioritura.

Il cambio d’epoca che stiamo vivendo, nel bel mezzo di una pandemia, ci sta urlando con forza la necessità di un cambiamento e l’altrettanta necessità della speranza per ricostruire un modo nuovo di abitare nel mondo, con la serietà di un sorriso sul volto e non con la tristezza dell’essere “profeti di sventure”. Non ci accodiamo anche noi al corteo dei musoni e brontoloni, di coloro che, solo perché non vedono riconosciuto come prima un ruolo sociale (e forse anche politico), abdicano alla speranza e alla freschezza di una Parola che fa vivere ogni cosa. 

La missione come programma pastorale 

Al di là dei luoghi e delle ragioni di appartenenza, la comunità parrocchiale è il contesto umano dove si attua l’opera evangelizzatrice della Chiesa, si celebrano i sacramenti e si vive la carità, in un dinamismo missionario che – oltre a essere elemento intrinseco dell’azione pastorale – diventa criterio di verifica della sua autenticità” (n.19). La missione non è un surplus, non è un accessorio o una sensibilità legata alla celebrazione del mese missionario di ottobre o alle adozioni a distanza! La missione diventa verifica dell’autenticità della stessa parrocchia e la proposta deve avvenire con le stesse caratteristiche di un territorio missionario, accettando la minorità dell’essere piccolo gregge in un contesto che chiede accoglienza e amore.

Non ripetiamo l’errore dei missionari del Cinquecento in Africa, convinti di portare “anzitutto la luce dell’occidente e poi il Vangelo di Cristo”, imponendo criteri culturali che non partivano dall’ascolto della ricchezza del territorio! Non vi è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei discepoli, direbbe l’incipit della Gaudium et Spes, e il contesto che ci circonda ci dà il vero alfabeto per parlare la lingua degli uomini. Non abbiamo nemici da convertire e da cui dobbiamo proteggerci, ma fratelli tutti da amare e da portare all’incontro con Cristo attraverso l’accoglienza di una comunità dalle porte aperte – o forse meglio senza porte – dove ognuno entra e trova rifugio. Il Signore farà il resto.

Avere uno stile missionario significa infine conoscere e incarnarsi in un territorio, parlare la lorolingua e non imporre con forza il proprio programma pastorale – magari teologicamente perfetto – ma che risente della polvere dei libri toccati con le mani ma non vitalizzati dall’azione dello Spirito. Significa vivere le dinamiche di quel popolo che si sta servendo, camminare e “trasferire il proprio domicilio esistenziale” nella realtà in cui si annuncia Cristo amando e sposando una comunità. 

*Rettore del seminario vescovile di Piazza Armerina



Rispondi