È necessario dedicare grande attenzione alle persone che vivono ai margini della società
“Voglio essere un testimone di Cristo”
Gianfranco Pagano, ha 31 anni, primo dei due figlie di Francesco e Teresa. Cresciuto nella comunità parrocchiale san Tommaso apostolo – chiesa Madre di Butera dove ha ricevuto i Sacramenti dell’iniziazione cristiana. Dopo il diploma di Ragioniere perito commerciale, si è iscritto all’Istituto Superiore di Scienze Religiose Mario Sturzo di Piazza Armerina dove ha frequentato due Anni Accademici, in seguito sospesi perché nel settembre del 2014 ha iniziato il cammino di formazione presso il Seminario diocesano e quello accademico presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. Nella sua parrocchia guidato dal compianto don Giulio Scuvera il cui ministero sacerdotale “ricco di profonda umanità, amore per la cultura e servizio incondizionato alla comunità, – ci dice – è stato tempo e luogo fecondo per il germogliare” della sua vocazione. È riconoscente ai suoi genitori per l’educazione e per avergli trasmesso i valori umani e cristiani. In parrocchia ha svolto il servizio di ministro straordinario della comunione. Decisivo per la sua decisione definitiva il suo attuale parroco don Filippo Ristagno. Si dice grato al Signore per i doni ricevuti e per le esperienze fatte durante gli anni di formazione. Per Gianfranco, è necessario dedicare attenzione alle persone che vivono ai margini della società e lavorare contro l’indifferenza della società verso gli ultimi.
Con il diaconato inizia realmente la tua donazione a Dio nel servizio alla Chiesa. Cosa provi alla vigilia dell’ordinazione?
In questo momento non è facile descrivere a parole i miei sentimenti, ma posso testimoniare che il Signore, Dio del Tempo e della Storia, fa nuove tutte le cose. Mi appresto a vivere l’ordinazione diaconale con un senso di profonda “gratitudine” nei confronti del Signore per i doni che ha elargito nella mia vita e per quanto ancora continuerà a fare.
Ci descrivi brevemente il tuo cammino personale ed il percorso ecclesiale alla scoperta della vocazione?
Devo tanto ai miei genitori per l’educazione e per avermi trasmesso quei valori fondamentali per la mia vita: umana, morale e cristiana, e a don Giulio Scuvera, maestro e faro nella mia infanzia e giovinezza, il cui ministero sacerdotale ricco di profonda umanità, amore per la cultura e servizio incondizionato alla comunità, è stato tempo e luogo fecondo per il germogliare della mia vocazione. Gli anni trascorsi in parrocchia hanno fatto sì che io potessi comprendere quello che il Signore aveva pensato per me. Grazie alla preghiera, ai ragazzi e in particolar modo a tutte quelle persone che mi sono state accanto ho potuto sperimentare che il Signore mi stava chiamando a servirlo più da vicino. Non posso dimenticare gli anni in cui sono stato Ministro Straordinario della Comunione: un periodo unico e brillante, perché mi ha permesso di toccare con mano la sofferenza di quelle persone che vivono il mistero della sofferenza, un periodo in cui ho iniziato a concretizzare, anche mediante l’adorazione eucaristica personale, la mia vocazione verso il sacerdozio. Dopo la morte di don Giulio Scuvera mi è stato vicino, come ancora lo è, don Filippo Ristagno: grazie alla sua umiltà d’animo e semplicità ho aperto il mio cuore a lui per un costante confronto. Grazie alla sua prudenza e saggezza, ho capito che era già il tempo di prendere una decisione definitiva.
Gli anni di formazione in Seminario
Sono stati sette anni intensi e pieni di studio, preghiera, incontri, esperienze varie come i Grest, il servizio al Cottolengo di Torino, un viaggio culturale in Spagna per imparare la lingua, l’esperienza di referente per il Dialogo dei seminari di Sicilia e molto altro! In questi anni trascorsi in seminario non sono mancate le difficoltà: Dio mi ha messo alla prova anche attraverso la sofferenza spirituale, ma nonostante ciò, mi ha dato la forza di superare tutto attraverso la preghiera e l’accostamento frequente ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia. L’esperienza di fraternità vissuta all’interno del seminario con i formatori e in particolar modo con i miei compagni di seminario è stata per me motivo di confronto schietto, diretto e sincero, di arricchimento, crescita e maturazione. In questo luogo ho potuto sperimentare la vicinanza, la disponibilità e la premura paterna dei formatori, in ogni situazione o necessità.
A quale ideale di Chiesa pensi di dover lavorare in collaborazione con gli altri confratelli e con i laici?
Penso che sia necessario un confronto costante non solo con gli altri confratelli sacerdoti e diaconi, ma soprattutto con le istituzioni pubbliche e con i servizi sociali, dedicando grande attenzione alle persone che vivono ai margini della società, che vivono un impoverimento economico, relazionale, etico e culturale. Soprattutto lavorare contro l’indifferenza della società verso gli ammalati e i poveri. La Chiesa di oggi deve essere attenta alle esigenze di ogni uomo, avendo il coraggio di schierarsi con chi si impegna lealmente a combattere situazioni di violenza e di ingiustizia e a denunciare profeticamente le gravi forme di sopraffazione presenti nel nostro territorio e in particolar modo essere testimone credibile del Signore risorto, capace di diffondere la verità con coraggio.
In genere, quando si pensa al prete si pensa sempre alle privazioni, la moglie, gli affetti, la sessualità, per cui quasi c’è uno sguardo di compassione verso il prete.
Parlare di privazioni non si addice, a mio parere, alla figura del presbitero. Il presbitero prima di essere tale è soprattutto un uomo, che ha maturato dentro di sé gli aspetti che lo hanno portato a compiere tale scelta in piena libertà e consapevolezza. Un presbitero che conosce bene se stesso e i propri limiti è chiamato a vivere in maniera ordinata le relazioni e la propria affettività e sessualità mantenendo una viva e costante relazione con il Signore, il solo capace di colmare il cuore dell’uomo con la sua presenza. Il cammino percorso sinora mi ha fatto comprendere come sia bello donare la vita a Cristo; agli occhi del mondo questa scelta può sembrare fallimentare, ma per me è vitale.
Quali pensi debbano essere le virtù fondamentali per essere un buon diacono e poi un buon prete?
Penso che il diacono come il presbitero debbano essere dotati di quei doni fondamentali per esercitare in pieno il proprio ministero. Una delle virtù principali è la prudenza: nel discernere, nel parlare e nell’agire. Poi la virtù della temperanza che deve essere la chiave di volta sulla quale si appoggiano tutte le altre virtù. Il diacono deve imparare fin da subito ad essere non solo un uomo di carità, ma soprattutto un uomo dell’accoglienza uniti alla capacità di ascolto.
C’è una immagine ideale di prete a cui vuoi ispirarti e perché? Come vedi il tuo futuro di presbitero della Chiesa?
Il modello per eccellenza è Cristo Buon Pastore. Il presbitero se non è legato a Cristo, come i tralci sono legati alla vite, non può essere vero testimone della Sua Parola. Altri modelli ai quali mi voglio ispirare sono le figure di don Pino Puglisi e don Tonino Bello: grazie al loro esempio, alla loro capacità comunicativa e alla loro coerenza di vita, sono stati in grado di portare il Vangelo anche a quelle persone lontane e ignoranti.
Il mio futuro? Beh ancora non ho un progetto pastorale vero e proprio: lo svilupperò man mano che il volere di Dio si manifesterà attraverso il Vescovo e le comunità che sarò chiamato a servire, tuttavia ho chiaro qualche aspetto generale: il presbitero di oggi deve essere in grado di stare a passo con i tempi, capace di portare quella ventata di novità evangelica. Un presbitero che sia padre, maestro e guida per l’attuale tessuto sociale che non è in grado di accogliere l’annuncio che la Chiesa propone, perché esso è immerso in un dinamismo di autoreferenzialità, dominato dall’egoismo, dall’individualismo e dall’omologazione, dove i giovani (e non solo) vivono nell’anonimato e dimenticando di essere figli di Dio ed eredi di una progettualità grande; tutto questo richiede interventi intelligenti e decisivi.