A 700 anni dalla nascita di Dante
Il Dante di Romano Guardini
Romano Guardini, sacerdote e pensatore fra i più fecondi del Novecento, la cui immensa opera spazia dalla teologia alla filosofia, dalla liturgia alla critica letteraria, scrisse anche su Dante, anzi vi dedicò una poderosa opera di migliaia di pagine ripubblicata all’interno della sua Opera Omnia per i tipi della Morcelliana. Secondo Guardini la chiave di volta per entrare nella sensibilità del poema dantesco è il mistero dell’incarnazione di Cristo. Per il grande pensatore del Novecento qualsiasi altro tentativo di lettura sarebbe fuorviante, se non addirittura pretestuoso.
La Commedia è un poema eminentemente cristiano che ha il grande pregio di declinare la fede in Cristo nella dinamica interiore di ogni cuore umano. Tale concezione deriva direttamente dall’Incarnazione, che “non è una necessità, ma un factum, un dato di fatto”. Anche nel più alto dei cieli, la dimensione corporea non è mai dimenticata, tanto che “la realtà fondamentale del poema dantesco non è lo spirito, ma l’uomo”.
Guardini sviluppa una vera e propria teologia del corpo. Per Dante e per il suo tempo, il corpo non è né spregevole, né cattivo; l’uomo è considerato nella sua globalità, nella sua anima, intesa in senso cristiano, per cui essa “non è semplicemente presente nel corpo, ma vive in esso; il corpo non è solo abitacolo, o addirittura carcere dell’anima, ma si fa continuamente per virtù di essa”. Sulla scia di una fondamentale intuizione del filologo tedesco Erich Auerbach, viene respinta ogni forma di dualismo: realtà e simbolo si fondono armonicamente. Si veda in questo senso la rappresentazione che Guardini fa di Beatrice: “essa non è un’allegoria, né del mondo celeste, né della grazia, oppure della teologia”, ma “la figlia di Folco Portinari”. La dissoluzione della figura storica della donna amata, frutto della mentalità razionalistica e idealistica moderna, ha causato incalcolabili danni alla retta comprensione del pensiero dantesco.
Dante porta in cielo le sue domande e la risposta “non viene dall’essenza infinita di Dio ma dall’esistenza di Cristo”, cioè dalla concreta realtà storica che Dante attraversa. Guardini arriva a dire che “il semplice rapporto diretto con Dio non è cristiano se non passa dall’umanità”.
Il mistero dell’Incarnazione si palesa al pellegrino Dante nell’Empireo, quando contempla, durante l’ultima visione, l’immagine dell’uomo nel cerchio divino: “mi parve pinta de la nostra effige” (cfr. Paradiso XXXIII, 127-132) e alla fine del suo viaggio, quando gli viene concessa la grazia finale di contemplare l’essenza di Dio e in lui la sua stessa vita interiore dice: “nel suo profondo, vidi che si interna (Paradiso, XXXIII, 85). Nel secondo cerchio, simbolo della seconda persona della Trinità, appare anche la “nostra immagine”, quella del volto umano. Le sembianze tuttavia non sono quelle antropomorfe ma hanno i tratti evangelici dell’uomo-Dio Cristo Gesù. Il volto dell’Uomo è il volto di Gesù e il volto di Gesù è il volto dell’Uomo. Tale teologia della creaturalità emerge silenziosamente nei primi tre cartigli della navata interna del Duomo di Monreale dove il Creatore e Adamo hanno le stesse fatteze. Tornando a Dante e al suo viaggio, il compimento consisterebbe per Guardini quello di avergli svelato questa profonda unità: nella realtà del Figlio di Dio incarnato, risiede tutta la misura del mistero dell’Uomo. Dante, cristiano di altri tempi e con una formazione lontana secoli dalla nostra, per dire l’umanità del rapporto con Dio utilizza diversi simboli tra cui l’immagine del Grifone, la “biforme sfera “(Purgatorio, XXXII, 96), “la fiera, ch’è sola una persona in due nature” (Purgatorio, XXXI, 80-81). Dal Cielo del Sole Dante si sposta a contemplare il cielo di Marte ed è lì, ormai altissimo, a contemplare una immagine impressionante! Nello spazio sconfinato del cielo infinite essenze luminose – i beati delle sfere – formano la croce, quasi come in una splendente via lattea, e nel mezzo “lampeggiava Cristo”.
Stavolta l’immagine non è più simbolica come dicevamo precedentemente, ma si staglia nella sua verità rivelativa. La nuova immagine è aperta e reale ma nello stesso tempo velata. Interessante i termini utilizzati per parlare della sua apparizione: lampeggiava, balenava, ossia appare e scompare a causa della strapotenza della luce. Dante è rapito in estasi, non capisce il contenuto dei canti, comprende solo che tutto è un trionfo “resurgi e vinci” (Paradiso XIV, 126). L’esperienza di Dio è talmente vera e reale che l’eccedenza ne è la misura e le parole non bastano per poterla definire: “e per la viva luce del sol trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sosteneva” (Paradiso, XXIII, 28-33).
Dio sfugge sempre, ciò che resta è l’umanità del Figlio che è anche la nostra carne, i nostri sospiri, i nostri desideri, i nostri inferni che Dante attraversa spinto e incoraggiato dall’Amore per Beatrice e per il desiderio di contemplare la SS. Trinità, i nostri purgatori fatti da luci evanescenti e di grigiori da capire e illuminare. In questo la Commedia ci da delle buone coordinate per attraversare il complesso cambio d’epoca in cui ci troviamo: camminare con i piedi per terra facendosi guidare dal desiderio profondo dell’Amore “che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso XXXIII, 145).