I ragazzi che esprimono il bisogno del riconoscimento
Una Chiesa che diventa casa per i nostri ragazzi
“Ma più che il valicare il mare, è duro ciò che ti costrinse a passarlo» canta il poeta arabo siculo Ibn Hamdis nel suo Canzoniere. La vita ci costringe a «uscire» (da uscio, porta di casa) e altrettante volte a tornare. Anche quando navighiamo in rete prima o poi torniamo sull’icona home. Ma che cosa è più importante: uscire o tornare? Omero ha risposto in modo inequivocabile: vivere è tornare a casa. Ma quale casa? Mi ha posto la domanda una studentessa universitaria di matematica durante un recente incontro. Avevo chiesto a chi volesse di mandarmi delle domande per una conversazione online, un’ora di scuola a porte aperte (chiunque poteva affacciarsi e ascoltarci). Ho ricevuto centinaia di domande e le 20 che ho scelto per la mia classe ideale abbracciavano tutte le età (dai 12 agli 80 anni) e provenienze. La prima domanda è stata proprio questa: «Ti è mai capitato di perderti? E come hai trovato casa? E che cosa è casa?». Perdersi è una costante della vita umana, un modo come un altro di dire: uscire. E se «perdersi» è la forma riflessiva di «perdere», allora, per contrasto, «casa» significa «possedere» e «possedersi».
Infatti «abitare» viene dal latino habeo (avere) ma nella forma frequentativa: continuare ad avere, possedere sempre. Questo è casa: ciò che sempre si possiede, non un tetto ma una vita a cui poter far sempre ritorno. Perdersi e abitare sembrano quindi due poli dell’esistenza umana che deve «perdere» quello che le impedisce di fiorire, ma proprio quel perdere/perdersi è il primo passo per (ri-)trovare casa. La casa è infatti ciò che non si perde mai: non un luogo ma un modo di essere. Dante si perde nella selva oscura ma lì comincia il ritorno a casa, Renzo e Lucia si perdono ma trovano una casa (si accasano) altrove, Pinocchio perde Geppetto ma la sua ricerca lo farà diventare un bambino vero… La letteratura e le fiabe, da Ulisse a Pollicino, raccontano di gente che deve «uscire», «perdersi» e «tornare» al vero «uscio» di casa, una vita nuova. E, come scriveva Chesterton, il miglior modo per scoprire la propria casa è uscire dalla porta principale, andare sempre dritto e rientrare dal retro, dopo aver fatto il giro del mondo.” (Alessandro D’Avernia)
La domanda sul perdersi e ritrovare casa, mi ha fatto pensare a una recente richiesta di una alunna a scuola: «Non riesco a essere chi sono, forse perché non lo so».
Mi sconvolge sempre la chiarezza delle domande poste dai miei alunni, perché la loro comunicazione linguistica tradisce la personalità che matura nel periodo scolastico. La ritengo una dote preziosa che impegna noi educatori a confrontarci con una realtà che è sempre più complessa.
I nostri ragazzi esprimono il bisogno del riconoscimento, e cercano riferimenti chiari e stabili che non trovano più nelle famiglie e in genere in tutti i luoghi tradizionali deputati alla formazione.
Alessandro D’Avenia, pone da sempre al centro delle sue riflessioni il tema fondamentale del diritto di essere adolescenti e di conseguenza il dovere della società di garantire il loro benessere nel processo di crescita. Questa bella provocazione potrebbe essere colta dalla nostra chiesa locale per proporre un progetto di pastorale educativa per dare una casa ai nostri ragazzi.