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Ancora a proposito di parrocchie

Continuando, a partire dal numero precedente, nella presentazione di alcune coordinate storiche circa la formazione della parrocchia così come la sperimentiamo oggi nel nostro tessuto ecclesiale, alla luce di numerosi e vigorosi studi specialistici in materia tra cui quelli di Adolfo Longhitano, potremmo prendere le mosse da quanto discusso nella Sessione Sesta del Concilio di Trento e promulgato nel Decreto sulla residenza dei vescovi del 13 gennaio 1547 dove, tra le altre cose, veniva affermato che “Quelli di dignità inferiore ai vescovi che abbiano in titolo o in commenda qualsiasi beneficio ecclesiastico, che richieda, per prescrizione del diritto o per consuetudine, la residenza personale, siano costretti dai loro ordinari con gli opportuni rimedi giuridici alla residenza (nel modo che a loro sembrerà opportuno, per il buon governo delle chiese e per l’aumento del culto divino, tenendo conto della qualità dei luoghi e delle persone) senza che qualcuno sia favorito da privilegi o indulti perpetui che concedano di non risiedere o di percepire i frutti durante l’assenza”. In queste righe che di fatto fondano l’obbligo per i parroci e i rettori delle chiese sacramentali di risiedere nel territorio di propria pertinenza canonica, si esplicita quello che già avevamo visto: che la parrocchia era innanzitutto lo “spazio” per il culto divino e la vita sacramentale, associata alla possibilità di una rendita stabilmente annessa al luogo di culto che permetteva il sostentamento del clero ad esso preposto. Diversi furono nella nostra Sicilia i tentativi di riforma dell’istituto parrocchiale in epoca borbonica ma con scarsi effetti che erano, più che altro, frutto del solo aumento del numero delle parrocchie ma senza una revisione organica del sistema che consentisse una equa distribuzione del sostentamento la cui penuria era alla base di alcuni aspetti patologici del rapporto tra clero, nobiltà e fedeli. Dopo il Risorgimento, con lo Stato unitario, diverse leggi nazionali contribuirono vigorosamente al cambiamento del volto delle parrocchie. Ricordiamo, tra le altre, l’abolizione delle decime e delle primizie del 4 ottobre 1860, la soppressione delle corporazioni religiose e la liquidazione dell’asse ecclesiastico nel 1866 e nel 1867 con la conseguente confisca del patrimonio delle parrocchie nel tentativo del legiferatori sabaudi di ricavare il sostentamento del clero da un apposito “fondo” costituito dai proventi degli stessi beni ecclesiastici incamerati. Ma questa metodologia, sotto l’aspetto della perequazione economica delle parrocchie, non fu favorevole per la Sicilia “che per volume di beni incamerati fu la prima tra le regioni italiane, per somme ricevute come sostentamento dei parroci fu l’ultima, perché il numero delle parrocchie era molto basso rispetto alla media nazionale e lo Stato non si preoccupò di procedere previamente a rivedere le circoscrizioni parrocchiali nella città siciliane”. (Longhitano, Evoluzione sociale e giuridica delle parrocchie). Tutto questo portò comunque a delle metamorfosi che non ebbero effetti soltanto sul piano strettamente giuridico e previdenzialistico nelle parrocchie ma anche sul clero a livello di protagonismo sociale. Infatti, se lo Stato incamerava i beni delle parrocchie, la Santa Sede procedeva con papa Pio IX alla soppressione della “Legazia apostolica” che per secoli aveva permesso ai re di Sicilia, su concessione pontificia, di disciplinare con competenza esclusiva la materia ecclesiastica nell’Isola. Questo, ovviamente, rivoluzionò, come si tenterà di vedere, il rapporto tra clero, episcopato e Santa Sede in Sicilia.



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