Finestra sulla prima lettera ai Corinzi
Chiesa allenata alla parola della croce (1Cor 1,18)
La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. (1Cor 1,18)
La parola della croce: quella che esprime il pensiero di Dio. Quella che comunica cosa c’è nella mente di Colui che crea la mente ed il cuore.
Quella che assume un’esperienza particolare (la pena di morte) di una persona particolare (Gesù), in un tempo (2000 anni fa) e in un luogo particolare (Israele), per farne un modello da tutti comprensibile in ogni luogo e in ogni tempo. Non una ramanzina, un predicozzo o una teoria astratta sul sacrificio di Gesù; bensì una mentalità con cui imparare a confrontarsi fin dalle prime difficoltà sorte nel delicato vivere da prossimi, da fratelli e sorelle rispetto alla più comune estraneità ordinaria. Per niente strategica, finta, costruita ed elaborata, la funzione del modello di vita strappata alla morte di Gesù Cristo attraverso la rinuncia all’autodifesa, all’autopotenziamento, apre squarci nell’esistenza barricata, costretta, murata e impaurita anche rispetto alla presunta corazza di orgoglio che i fratelli corinti si sono cuciti addosso attraverso i nomi di battezzati illustri.
Se “in principio era il Verbo” (Gv 1,1), adesso, a Corinto, il Verbo è della croce, ovvero di un martirio conteso tra l’oblio della prima chiamata al vangelo e lo scalpitio frenetico delle parole e dei luoghi comuni di una sapienza mondana messa in crisi; e non ci sono vie di fuga, scorciatoie e mezze misure nel cammino intrapreso da una comunità intera, compattata dal desiderio di una vita nuova e condotta a piccoli passi in mezzo alla notte fluida della società greca e libertina come quella della città portuale in cui è sorta. L’apostolo che intuisce nelle comunità il profondo bisogno di identificarsi lascia che sia lo Spirito a dettare i passi successivi all’impegno preso con i familiari di Cloe che lo hanno ragguagliato sulle discordie (ἔριδες) appena scatenate e decide di non fermarsi a guardare il problema con le sue ricadute più immediate, ma di andare oltre, rinunciando a plasmare a propria “immagine e somiglianza” la comunità corinta, palestra di ecclesialità finita in alto mare, ed entrando nel vivo della faccenda con il potenziale immenso di una parola fatta storia, ovvero quella della croce, da puntare come un ariete per sfondare il muro di separazione all’interno della comunità. Per cui, mentre i fratelli fanno a gara ad esibire i propri padrini di battesimo egli ricorda loro di essere stati battezzati nel nome di Cristo; e mentre in giro si fanno discorsi di alta filosofia e religione, annuncia Cristo crocifisso: scandalo e stoltezza (1,23).
Pronto a demolire le ragioni delle discordie per poi raccontare la croce, annunciare la croce, Paolo sembra estasiato da quanto ha in cuore di dire ma, allo stesso tempo, si cimenta in un capolavoro di prudenza in grado di lasciare affiorare paternità e governo. Soltanto in questo modo, la compagine dei neonati in Cristo (3,1), pian piano prenderà le sembianze di una comunità, di una chiesa vera e propria (1,2). Ma Corinto è una realtà sempre più attuale ai nostri giorni ed assomiglia tanto ad alcuni riflessi di chiesa che s’intravedono anche grazie alle spinte verso quella sempre antica e sempre nuova capacità di camminare insieme dietro a Gesù Cristo, che oggi ha preso il nome di sinodalità.
Parola della croce oggi, come sempre, per le comunità sparse ovunque è dedicarsi alle Scritture personalmente e comunitariamente; perché soltanto un rapporto fermo con le Scritture irrobustisce la chiamata, che tanto benevolmente smuove gli animi della gente, a riscoprire il proprio battesimo; soltanto per questa via Dio si fa conoscere come persona con il quale relazionarsi attraverso la preghiera, piuttosto che come oggetto di devozione anonima a cui prestare culto incondizionatamente e, magari, per scaramanzia o paura: parola della croce è fiato di Dio, devozione è fiato dell’uomo. Parola della croce per chi guida le comunità, oggi e sempre, è assumere la condizione del popolo di Dio affidato alle proprie cure, al proprio tempo, senza pretendere di trasformarlo a seconda dei gusti; è accostarne le discordie senza la pretesa di dirimerle, bensì con pazienza entrarvi in punta di piedi nel bene, nella verità, con dolcezza e rispetto (1Pt 3,15): diaconi, sacerdoti, vescovi e papi mettono radici, decidono di restare per amare la gente, piantano la tenda delle proprie abitudini ed sono disposti a modificarle.
Se non per queste ragioni, come mai ci sente in salita e con pendenze da capogiro quando si presentano difficoltà e prove che incidono notevolmente sulla quotidianità?
Se non per una vera e propria latitanza dal vangelo, come mai Dio appare non interessarsi più di tanto alle guerre e alle stragi di innocenti?
Se non per una spiritualità improvvisata, a scapito di tutto un tempo da poter dedicare al rapporto profondo con il Signore, nello studio, nella condivisione delle Scritture e nella fraternità, perché la Chiesa stenta a camminare insieme e ovunque si trovi, con le stesso passo e dietro allo stesso Gesù Cristo di ieri, oggi e sempre?