Ri-creare la speranza: gli “Screenagers” e la fragilità dell’io
Nonostante siano passati sette anni dall’uscita della celebre canzone “Che ne sanno i duemila”, continuano a riecheggiare le note parole del cantante Gabry Ponte; egli ci consente di poter parlare di coloro che sono nati nel pieno dell’era digitale: la generazione Alpha (termine coniato da Mark McCrindle nel suo discorso alla TEDx del 2015 per indicare i nati dal 2012 in poi).
Essa si differenzia dalla generazione Z (medio – tardi anni ’90 e primi 2000) per la mancata esperienza col mondo analogico. Nella loro crescita, seppur i nati “Z” o “nativi digitali” hanno potuto godere dell’accesso a internet, delle tecnologie e dei social media – tanto da esserne influenzati nel loro processo di socializzazione – a differenza degli Alpha, essi continuavano a mantenere ancora un certo rapporto con la televisione; invece, la generazione “Alpha” o “screenagers” si distingue per l’importanza che gli schermi dei computer, tablet e smartphone hanno nel loro processo di crescita.
Così, a ben ragione, Fedez e J-Ax potranno dire che “l’iPhone ha preso il posto di una parte del corpo”. Con la crescita della realtà virtuale, smartphone e tablet sono diventati il “pane quotidiano” di entrambe le generazioni, un pane che il più delle volte si sovrappone al mondo reale. Gli amici non si incontrano più solo o prevalentemente nelle piazze ma nelle chat di Whatsapp, Facebook Messenger o, ancor più nelle direct di Instagram e TikTok. Allo stesso modo, per quanto riguarda la persona da cui si è attratti, è finito il tempo in cui le informazioni si hanno dagli amici e dagli amici degli amici ed è venuta meno l’attesa di poter uscire di casa per incrociare lo sguardo di colui o colei che si vuol conquistare; infatti, è sufficiente un semplice clic, fare una richiesta d’amicizia o diventare follower della propria “fiamma”: se gli interessi coincidono, può avere avvenire il fatidico “Ehi, come stai”.
Sebbene generazione Z e Alpha si differenziano l’una dall’altra, entrambe sono accumunate dal bisogno della popolarità. Infatti, i social non sono solo le nuove piazze entro cui poter allargare la propria rete di amicizie ma internet è diventato il luogo della notorietà in quanto, lo status sociale e la popolarità della persona sono dati dal numero di amici online; ciò ha comportato l’estensione del concetto di amicizia: non più solamente una relazione interpersonale ma – come affermato da Marta Rossi Galante – essa è uno status sociale che spinge i giovani alla ricerca di contatti sconosciuti che ne possano riconoscere la loro esistenza nel mondo.
Per quanto riguarda il corpo, nella logica dei like esso può non apparire gradevole e convincente, incapace di attirare l’attenzione e l’approvazione tanto desiderati dagli “amici”. Tale disagio può essere espresso attraverso l’assunzione di comportamenti disinibiti e spropositati.
Basti considerare che, attraverso una selezione compiuta dallo stesso soggetto, nella vetrina online si arriva a pubblicare tutto ciò che di più intimo possa riguardare la persona, esponendo quelle parti di sé e del corpo che più potrebbero attirare l’attenzione. Altre volte, invece, pur non mostrando il corpo, alcuni utilizzano i social come una sorta di diario segreto in cui viene confidato ciò che la loro mente seleziona come “appetibile” di approvazione. Così, il numero di follower e dei like arriva a influenzare l’identità sociale dei giovani; infatti, il giudizio dei coetanei è in grado di dare preziosità e valore ma anche di iniettare un dolore profondo che rischia di far sprofondare nell’oblio della non accettazione di sé.
Seppur si deve dare merito ai social network di aver accorciato le distanze, dall’altra parte i social hanno contribuito alla diffusione di un virus denominabile “fragilità dell’ io ”, di cui una personalità debole ne è la conseguenza. La fragilità dell’io è il risultato di una schizofrenia dilagante che vede, da una parte ragazzi e ragazze super fighetti e palestrati alla Can Yaman e alla Belen; dall’altra, i medesimi avvertono costanti crisi di panico alla quale non riescono dare un nome. Inoltre, sono gli stessi che hanno difficoltà nella gestione dei conflitti quali: a livello affettivo con l’incapacità a gestire il rifiuto o la non corrispondenza da parte del proprio “malessere” (la persona che piace) e le incomprensioni tra amici; a livello sociale si pensi al mondo della scuola e alle crisi emotive che sorgono in chi è incapace a gestire gli ostacoli delle discipline in cui si è più carenti. Chi lavora con i giovani ha modo di toccare con mano una realtà così drammatica; infatti, circa il 90% dei ragazzi con i quali mi sono confrontato, non riesce a gestire le emozioni e vive una tensione continua tra paura e conflitto da cui si genera l’attacco di panico. Esso è rivelativo del dramma che riguarda l’uomo di sempre: la paura della solitudine. Oggi, più che mai, c’è bisogno di annunciare una speranza che è capace di ridare, o per meglio dire ri-creare vita, libertà, desiderio, sogno, attesa, voglia di cambiare, coraggio. D’altronde è la logica dei macarismi , di quelle beatitudini che sono il frutto di un amore donato e seminato nel cuore dell’uomo, il quale se accolto, coltivato e custodito è capace di dischiudere quel regno trapiantato nell’intimo dell’esistenza umana per consentire a quest’uomo, ancora figlio, di sollevare lo sguardo verso l’altura dell’eternità.