Annunciando Gesù Crocifisso a Corinto: un pensiero “autentico” anche se poco coreografico
A Corinto, la scelta di farsi presente da parte dell’apostolo tramite una lettera che riveli sempre di più e meglio la mentalità, il punto di vista decisivo, l’unica e sola prospettiva alla luce della quale continuare ad essere comunità da parte dei fratelli è, di per sè stessa, una vera e propria sapienza (σοφία); ma andando al cuore delle parole, l’intelligenza di Paolo, così come la mentalità di Dio, capace di cose grandiose, nonostante l’approccio non eclatante, anzi quasi fallimentare, acquistano luce, musicalità, dimensioni reali e profondità rispetto all’ «eccellenza della parola» (2,1).
Tutto ciò, in questo inizio brillante, è sufficiente a mostrare quanto ispirato sia il mandato apostolico di chi punta al cuore, alle ragioni essenziali della fede in «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2,2) senza indietreggiare nemmeno di un passo quando i fratelli vacillano per mancanza di coreografie attraenti, discorsi persuasivi e ammalianti da parte di personalità monumentali che si prendano tutto sulle spalle trainando con le proprie abilità la storia; ed è chiaro che il messaggio autentico affiori lentamente, nella consapevolezza di tutti e senza imposizioni, perché la fede di ognuno poggi sulla «potenza di Dio» (ἐν δυνάμει Θεοῦ): una potenza che è realtà, fatti narrati, episodi e circostanze concrete nello stile più sincero e genuino dell’antica tradizione dei padri (Dt 26,5s).
Dalla missione ispirata dell’apostolo, la comunità mette radici e fiorisce come una realtà potente, capace di Dio, narrazione vivente delle sue opere: un vangelo non scritto, «una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani» (2Cor 3,3). La comunità che si forma dalla missione ispirata dell’apostolo vive anch’essa della stessa ispirazione del mandato apostolico, per cui il dubbio e l’esitazione, l’incredulità e la mancanza di fiducia come increspature dell’umano sono spacchi e tagli alla corteccia del vivere attraverso cui il pensiero sapiente di Dio s’innesta e rende vitale quanto è destinato all’oblio e, soprattutto, dà voce a quanto altrimenti rimarrebbe taciuto, nascosto e occultato per vergogna o per poco coraggio: l’intervento di Dio, quello che avvolge di sè la condizione troppo umana dei fratelli che, neonati in Cristo (3,1), cercano sguardi e saluti rassicuranti, rischiando di rimanere delusi dalle aspettative stesse; la passione e la dolce, ma avvincente, convinzione che ci sia una sola sapienza e che ad essa si acceda attraverso l’imperfetto, il debole, il timoroso ed il trepidante (2,3), ovvero attraverso la nuda e cruda realtà, che chiede tempo ma restituisce il doppio di quanto chiede: amore autentico, carità (ἀγάπη). Amore di Dio e amore dell’uomo nei confronti di Dio; vicinanza di Dio e vicinanza dell’uomo nei confronti di Dio; prossimità da una parte e dall’altra: agilità, sensibilità, cura e discrezione per un mistero preparato «per coloro che lo amano» (2,9). L’amore che, a sua volta, rende vero e autentico quanto è pieno di sè, ma chiuso all’altro, alla persona come uomo e come donna, come storia e come esistenza, alla vita che deve ancora accadere; l’amore che all’interno del testo della lettera in quanto ἀγάπη inizia da qui a far capolino imprimendo un’accelerazione a tutto quanto è preparato per l’insegnamento alla comunità da questa punto in poi dello scritto a tal punto da definire i lettori, perfetti (2,6), ovvero all’altezza di una maturità in grado di portare ognuno alla responsabilità, alla sensibilità, all’attenzione dell’altro (cfr. 14,20). Lettori sì, dunque, ma prima di ogni cosa perfetti, in grado di attendere l’altro, farne destinazione e mèta, traguardo e fine del proprio essere fratelli nella comunità, dentro e fuori dal contesto ecclesiale. Perfetti oppure autentici la differenza è nulla: la vita che si riflette nell’altro diventa struttura certa, stabile e sicura; diventa casa e comunità; assemblea di chiamati, ovvero di persone che hanno risposto al proprio interlocutore con sempre maggiore voglia di lasciarsi chiamare, interpellare e magari interagire; quindi chiesa, luogo fatto di esistenza viva, abitata e in grado di abitare ogni luogo in cui il fratello venga a trovarsi; quindi corpo, cellula di cellule, uno figura di molti, visibile dell’invisibile, come il corpo di Gesù Cristo Crocifisso, altare autentico del sacrificio perfetto, sapiente e potente di Dio, nonostante non abbia «apparenza nè né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2).
– Quanto c’è da imparare ancora da una lezione così profonda, semplice e vera!
– A che punto è il rapporto discepolo-Maestro, soprattutto di fronte alla parola della croce, quindi alla mentalità, al modo di essere uomini e donne nella comunità?
– Come può veramente essere forgiata l’esistenza nel mistero da un Dio che sostiene di amarci quando la vita ha la sua forma plastica più verosimile a quella di una serie di fosse a catena in cui leoni e draghi, aspidi e vipere sembrano gli unici ad attenderci?
– A che punto è nelle nostre comunità quella consapevolezza di chiesa, assemblea di chiamati, in cui l’altro da accogliere è innanzitutto il destino di ognuno e di tutti insieme, piuttosto che uno di passaggio da mettere alla prova, prima di aprirgli le porte?
– Quanto la sapienza del mondo, ovvero la logica dello scarto e dell’esclusione dell’altro “diverso” rispetto alle aspettative e ai pregiudizi, ha a che fare con la partecipazione di ognuno alla vita della comunità?