L’uomo psichico e spirituale. Il pensiero di Cristo dalla rinascita di Damasco alla missione di Corinto (1Cor 2,16)
Tuona come una diagnosi frutto di esami precisi e molto dettagliati quello che l’apostolo scrive con le parole: «l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio» (2,14) e fa accapponare la pelle il senso di una così profonda riflessione sulla natura umana che, con estrema probabilità, mette insieme secoli di antropologia. Un’osservazione sull’umano che Paolo definisce psichico (ψυχικός), ma non per questo fallito, seppur debole; un riprodurre con le parole, quasi come pitturando il modello della creatura così per come è stato consegnato al creato dallo stesso Signore, che lascia alle orecchie dell’anima un retrogusto affascinante e visionario. Perché non è nello stile paolino cancellare, occultare o mistificare e confondere, piuttosto è nel suo più genuino stile missionario ricomporre, accompagnare e far procedere in avanti, senza costruire ostacoli o trappole al cammino dello Spirito ed è in questo passaggio, all’interno della lettera, che l’apostolo sviluppa il suo pensiero liberando una vera e propria sinfonia di affermazioni che fanno dello Spirito di Dio una persona in relazione continua con le creature e, specialmente, con l’uomo a cui intende consegnarsi per renderlo spirituale (πνευματικῶς), cioè capace di conoscere Dio. La conoscenza, infatti, suggerisce all’uomo i termini, le categorie, i punti di riferimento con cui ragionare, sviluppare il discorso sull’esistenza in quanto tale, così per com’è; per cui, se grazie alle sue forze l’uomo psichico comprende soltanto ciò che è umano, in virtù dello Spirito può arrivare alle profondità di Dio, ovvero: «conoscere ciò che Dio ci ha donato» (2,12).
Alla luce di ciò, la parola della croce è il dono da conoscere, il tesoro da custodire gelosamente, la ricchezza inestimabile che sgorga dalle viscere di Dio come una fonte d’acqua dal cuore di una montagna, e quanto proviene da Dio può diventare narrazione secondo un linguaggio adatto che è Dio stesso a suscitare tra i perfetti (2,6): un linguaggio che preferisce lo “scandalo” (nel senso di novità imprevedibile) al luogo comune, la comunità alle divisioni, la debolezza alla forza e perfino Cristo crocifisso all’eccellenza della parola e della sapienza (2,1-2). «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (2,16), afferma Paolo con tutta la sua umanità rialzata. Ma da dove attinge l’apostolo l’idea di questo capovolgimento certamente profetico ma, allo stesso tempo, inedito e disarmante per la stessa profezia? Da dove riesce a far spiccar il volo seppur con pochissima corrente d’aria ad una così imprevedibile rivoluzione dei punti di vista? Laddove nulla è scontato e nel momento in cui ormai niente è decisivo, all’apostolo rimane solo la propria esperienza personale di scelto e capovolto sulla via di Damasco come una pergamena sempre a disposizione: chiara e misteriosa, semplice e profonda, utile anche se non indispensabile. Il suo vangelo racconta certamente di un risuscitato, prima perseguitato e ucciso, che è Gesù, certamente ma che, nella sua capacità narrativa, egli vede riflesso nella Magna Charta dell’annuncio: la fine dell’uomo vecchio e l’inizio dell’uomo nuovo, «creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Rm 6,6; Ef 4,2; Col 3,9). Perché è pur vero che quando il resoconto ordinato (Lc 1,1-4) attinge alla storia di testimoni oculari capaci di rendere vivo e presente il soggetto del racconto, allora l’umano si apre al mistero, così come le sue forze alla forza dello Spirito di Dio. La religione viene dopo; in questa fase è la mentalità spirituale che ha bisogno di radicarsi, sprofondando in Dio e nella storia. L’istituzione avrà il suo spazio successivamente; qui è il carisma, l’ispirazione più pura che puntella l’esistenza del credente e ne fa un’opera appunto inedita e disarmante. C’è tanto bisogno di entrare ed immergersi nel capolavoro dello Spirito di cui ognuno è parte vivente, titolare unico e protagonista principale; così come è necessario vivere la comunità come uno spazio e un tempo in cui ognuno, con la propria natura debole, si senta al centro.
E c’è bisogno di un vero e proprio vangelo sinodale, di una riscrittura comune del messaggio di Dio in grado di lasciar passare la vita spirituale, divina, attraverso le vicende deboli, cioè umane, di tutta quanta la comunità, dal fratello più presente a quello più assente.
Ma perché fatica così tanto questa chiesa a rimanere nella debolezza del vangelo, dividendosi al suo interno in gruppi di riformisti e gruppi di conservatori?
Quanto c’è di attraente ed entusiasmante nella vita delle nostre piccole comunità a partire da chi sta al centro, cioè dal fratello e dalla sorella con cui condividiamo la parola della croce?
In questo cambiamento d’epoca, si avverte la responsabilità di una testimonianza oculare, ovvero relativa ai fatti della vita illuminati dalla Parola di Dio, dal suo Spirito, come un dono ricevuto da Lui oppure si preferisce frequentare i luoghi comuni e il linguaggio dei devoti, sempre meno credenti e credibili?