La libertà dell’apostolo di chiedere e ricevere offerte per il proprio sostentamento è argomento inalienabile dalla stessa dignità di persona umana, oltre che di servo di Cristo; eppure è stato vagliato attentamente da Paolo e Barnaba se fosse o non fosse il caso di far valere questo diritto presso i fratelli della comunità di Corinto. La libertà a mantenersi e a vivere di quanto si esercita come una vera e propria attività lavorativa, che impegna durante il giorno fino al tramonto (e oltre), appartiene a tutti, compresi i ministri del Dio di Gesù Cristo; eppure Paolo ha preferito rimanere libero dal percepire quanto gli fosse servito materialmente per poter vivere. È un passaggio chiave quello con cui l’apostolo, in questo tratto della lettera, preferisce illuminare il diritto a “partecipare alla mensa del Signore” (τραπέζης Κυρίου μετέχειν) (1Cor 10,17.21) mettendolo sullo stesso piano del diritto a percepire un salario per il lavoro svolto nella comunità come inviato di Dio (1Cor 9,12); soltanto in questa prima lettera ai Corinzi, infatti, l’idea di “partecipare, godere” (μετέχειν) viene espressa e argomentata, e soltanto in queste righe di un tale principio se ne parla sia in termini materiali che in termini spirituali, fino a quando lo stesso apostolo preferisce dedicarsi al tema della mensa del Signore, evitando
a priori ogni confusione tra ciò che conta e ciò che non conta nella vita nuova in Cristo. La consapevolezza dell’apostolo riguardo ai propri diritti è risaputa; nel momento in cui stava per essere ancora una volta flagellato, a Gerusalemme, egli ha fatto notare ironicamente ai soldati presenti: «Avete il diritto di flagellare uno che è cittadino romano e non ancora giudicato?» (At 22,25), sottolineando appunto la sua volontà a far valere il diritto in quella circostanza, dal momento che cittadino romano poteva essere torturato senza essere stato prima giudicato e condannato. Dunque, la formazione e l’istruzione di Paolo in merito alla giurisprudenza del tempo era piuttosto aggiornata, almeno per quanto poteva riguardare la sua situazione di apostolo del Signore e, contemporaneamente, di ebreo e cittadino romano. Ma riguardo al diritto di essere remunerato per la sua fatica nei confronti della missione affidagli, egli preferisce non avvalersene, rimandando il senso di tutto alla parte della lettera che riguarda la mensa dell’Eucarestia e costruendo una serie di indicazioni importanti che aiutino il testo a rimbalzare in avanti senza farlo arenare in questioni giuridiche sterili. «
Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo» (9,12): la libertà al servizio del vangelo è ben altra cosa della libertà in funzione del diritto e della giustizia, quasi come se alla libertà occorresse sempre e comunque un obiettivo per cui sperimentarla e viverla. Per l’apostolo, infatti, aver indicato l’ “altro” come «
un fratello per il quale Cristo è morto» (8,11) è stata una priorità fondata sulla consapevolezza che ogni diritto è stabilito per l’edificazione della comunità e ciò che ad essa è anteposto cessa di essere un diritto, anche se garantito dalla legislazione civile. Vivere del vangelo a Corinto, dunque, è partecipare della sorte di ogni fratello e sorella, siano essi in grado di conoscere la verità di Gesù Cristo o in difficoltà; significa rimettere il proprio destino nel cuore della comunità come accanto all’esistenza del Cristo vivo e presente, sia nel messaggio di ogni missionario sia nella vita di ogni persona che lo ascolta: non esistono altre priorità nè diritti da anteporre a tutto ciò.
Spunti e appunti per una Lectio personale
Rapporto con Dio e vita fraterna
(Ezechiele 3,17-19; Matteo 18,15-18; Apocalisse 2,3-5; Siracide 13,13-14; Atti 20,32)
Giovanni 8,31«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»