5 Gennaio 2024

Accenni di sinodalità a Corinto: responsabilità condivise nella partecipazione alla comunità (1Cor 5,1-13).

di don Salvatore Chiolo

Il tono della lettera s’inasprisce notevolmente appena l’apostolo punta l’attenzione sul caso dell’incesto che ha coinvolto alcuni fratelli della comunità, poiché un tale comportamento è contrario all’insegnamento del vangelo (oltre che alla stessa giurisprudenza romana), assecondando inclinazioni nocive verso gli altri e verso sé stessi. Questa è l’idea. Colui che: «immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro» (5,11), contemporaneamente, è parte della comunità, è necessario che venga allontanato. Più precisamente, Paolo afferma che è necessario distinguere il problema in sé con l’appartenenza alla comunità. [expander_maker id=”1″ ]Per cui, se in generale appartenere alla comunità non è conciliabile con chi vive nella condizione di immoralità, avarizia, idolatria, maldicenza, ubriachezza e latrocinio, ancora di più lo è vivere da incestuosi nella vita di tutti i giorni. Fraternità e vissuto immorale sono incompatibili quindi e, come se non bastasse, un’ulteriore precisazione l’apostolo la sottoscrive volentieri, completando il quadro: sfidare il vangelo, ignorando la predicazione e l’insegnamento degli apostoli non è positivo. Un insegnamento dettato con le parole e con la vita; una predicazione segnata da esemplarità inequivocabile sul fatto che al centro delle “nuove” amicizie non vi fosse una simpatia umana, un sentimento o un’affinità elettiva che viene dal proprio sesto senso, bensì Gesù Cristo, la sua persona e il suo insegnamento, tradotto dall’esperienza e dall’esempio di Paolo, di Apollo e Cefa. Per cui, non correggere il fratello incestuoso è già incoraggiarlo a continuare; accoglierlo nell’assemblea, come se niente fosse, senza richiamarlo in privato e neppure in pubblico, è già promuoverne la condotta, invitando chiunque, eventualmente, ad imitarlo anche nella vita ordinaria della polis. Dunque, il silenzio di fronte ad una situazione plateale, contraria alla legge d’Israele insegnata dagli apostoli, nel linguaggio della lettera è una sfida, un vanto, un “rigonfiamento dell’orgoglio” e Paolo riprende spesso questa espressione per affermare la profondità, nel bene e nel male, delle esperienze vissute, come nel caso della predicazione: «annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). È emblematico come la predicazione dell’apostolo si contrapponga al silenzio dei fratelli che, di fronte all’errore di uno soltanto, acquista una forza tale da sfidare tutta un’intera missione evangelizzatrice. Un richiamo non fatto, un ammonimento omesso vanificano il lavoro di chi è stato inviato a portare il messaggio di Dio direttamente da Lui stesso. Paolo, perciò, non esita a calcare la mano sfidando, appunto, il silenzio complice e, soprattutto, il plauso arrogante di chi nella comunità non corregge chi sbaglia pur sapendo che quel determinato comportamento è sbagliato . L’immagine del lievito, poi, ha una forza talmente ispirata da far arrossire anche il più incallito degli stolti tra i fratelli: un pò di pasta acida che, se saputa usare, ha il potere di aumentare il volume, la capacità, la forma esteriore e la sostanza interiore della pasta nuova e fresca. Una visione spettacolare quella che si propone davanti allo sguardo dell’uomo rinato a Damasco e vissuto per proclamare il vangelo ai pagani non solo una volta, ma cento volte, mille volte: tutte le volte che è necessario, insomma, anche alle stesse persone. Una visione integrale, d’insieme, secondo cui la pasta acida e nuova (parola della croce) e la pasta fresca (comunità) convivono per le mani del pastaio, ovvero per le mani di ciascun fratello e di tutta la comunità insieme. Da qui, l’idea che uno semina e un altro fa crescere, a proposito del campo e dell’edificio di Dio (3,1-17), si completa grazie alla sfumatura che riguarda proprio l’opera attiva di ogni fratello e sorella nei confronti della comunità, in quanto opera di Dio. Una vera e propria “collaborazione” apostolica a togliere via il lievito vecchio che rende ragione sia dell’iniziativa di Dio, che ha inviato Paolo e a chiamare ciascuno di loro, sia della risposta che essi hanno dato liberamente a quella chiamata con l’ascolto attento e continuato nel tempo, compreso quello della lettera che stanno leggendo insieme, prima dell’arrivo dell’apostolo. Una responsabilità condivisa nei confronti dell’opera che si sta realizzando sotto gli occhi di tutti attraverso Dio, i suoi apostoli e i fratelli e le sorelle: la comunità. È fondamentale ribadire questa preziosa attitudine che la chiesa apostolica riconosce alla comunità dei fratelli e delle sorelle cristiane fin dalla prima ora: una “collaborazione” seriamente condivisa e vitale poiché in grado di salvare la vita dell’altro. In un contesto, come quello odierno, di rinnovamento ecclesiale nel quale si riflette insieme sulla sinodalità della chiesa, cioè sul senso dell’essere e dell’esserci degli uni per gli altri, in fase di programmazione, deliberazione, amministrazione e attuazione della vita ecclesiale, questo insegnamento tutto corinzio, tutto apostolico e paolino – in modo particolare – è indispensabile sia per la continuità con la storia e con la tradizione, sia per la risaputa efficacia poiché collaudato e perciò raccomandato da generazioni e generazioni nella vita della chiesa. Eppure, da un lato quanta paura e quanta soggezione ostacola il discernimento, l’accompagnamento e la “custodia” vera, sincera, profonda, chiara, onesta e alla “luce del sole” di tanti nostri fratelli e sorelle? Dall’altro, quanta voglia di interferire con il vissuto altrui per diletto egoistico e meschino spesso e volentieri ha il sopravvento? Che cristianesimo vivono le nostre comunità cattoliche, in questo cambiamento d’epoca, se non si è in grado di distinguere tra il problema in sé e l’appartenenza alla comunità stessa da parte di alcuni fratelli in evidente imbarazzo nelle relazioni d’amicizia, o nei rapporti con i familiari o in  quelle di lavoro? Perché l’autorità religiosa ha il dovere d’intervenire per prima e soprattutto, mentre il resto della comunità sta a guardare chiudendosi a riccio per paura o, peggio, per indifferenza?

Spunti e appunti per una Lectio personale

Rapporto con Dio e vita fraterna

Ezechiele 3,17«Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. 18Se io dico al malvagio: «Tu morirai!», e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. 19Ma se tu avverti il malvagio ed egli non si converte dalla sua malvagità e dalla sua perversa condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato.

Matteo 18,15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

Apocalisse 2,3Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. 4Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. 5Ricorda dunque da dove sei caduto, convèrtiti e compi le opere di prima. Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto. [/expander_maker]

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