In questo brano, l’apostolo si pone con un atteggiamento di attenzione dedicata che invoca complicità e ascolto, allo stesso tempo. L’argomento dei banchetti sacri viene riproposto secondo una luce diversa e cioè in quanto comunione con i demòni, rispetto alla fractio panis che è comunione, invece, con Dio e ciò a motivo del fatto che il concetto di comunione (κοινωνία), all’interno dell’intero epistolario, è denso di significato, in quanto e realtà partecipata, coinvolgente e destino condiviso. In contrapposizione con il rischio dell’idolatria, enumerato nei versetti precedenti (10,7), l’apostolo chiede l’attenzione dei suoi interlocutori su questo punto, poichè persone intelligenti (φρόνιμος), letteralmente “capaci di discernimento” (10,15). [expander_maker id=”1″ ] La comunione con il sangue e con il corpo di Cristo, attraverso il calice benedetto e il pane spezzato, è importante perché innanzitutto è una pratica alimentare, reale e concreta attraverso cui il cibo e la bevanda sono parte fisica, materiale, concreta della persona di Cristo; in questo senso, mangiare e bere non vuol dire soltanto nutrirsi, ma anche condividere la vita, dall’inizio alla fine, con coloro che in quel contesto si pongono in relazione di reciprocità. Il contrario della comunione, dunque, è l’idolatria, secondo l’apostolo, che significa mangiare, bere, alzarsi e divertirsi, per come accadde al popolo d’Israele a Sittim che «cominciò a fornicare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi» (Nm 25,1-2, citato in 1Cor 10,8). Il modo della comunione secondo Paolo è diverso da quello secondo le usanze di Corinto; Paolo prepara alla comunione con il Signore e con i fratelli, nel Signore, quindi verso una reciprocità produttiva e circolare; le tradizioni religiose di Corinto, già presenti nel momento in cui il vangelo viene predicato, preparano invece alla comunione con i demòni (δαιμόνιον), figure dalle quali il cristiano di Corinto è stato allontanato, che impongono una reciprocità fine a sè stessa, implodente e frustrante. Sulla loro esistenza, in quanto demòni, l’apostolo non dice praticamente nulla all’interno dell’intero epistolario e questo brano è l’unico, oltre a 1Tim 4,1, che li menzioni e sebbene la riflessione si sia sviluppata in seguito lasciando traccia di sè nelle letteratura evangelica ed epistolare dalla fine del I sec. in poi, nella lettera ai Corinzi viene insegnato ai fratelli e alle sorelle delle prime comunità che la fede in Gesù e la fede nei demòni sono inconciliabili. Ciò può sembrare scontato ad una prima lettura del messaggio dell’apostolo, invece, focalizzando meglio la sostanza del discroso, esso è un dettaglio strategicamente ineludibile nell’intero approccio alla nuova vita del cristiano. La chiamata del credente ad una “nuova” vita ha senso proprio perché c’è un nuovo modo di vedere e di considerare la realtà: una nuova prospettiva che abbraccia l’angolatura esistenziale proposta dalla persona di Gesù Cristo. Essa ha delle ricadute pratiche che coinvolgono i fratelli della comunità, così come hanno coinvolto il popolo d’Israele nel deserto, quando le indicazioni di Dio furono lentamente tradotte in leggi e norme vincolanti la vita quotidiana di tutti. Le divinità di Corinto, alla luce dell’insegnamento dell’apostolo, non esistono, tuttavia prendere parte ai sacrifici sia direttamente che attraverso i banchetti sacrificali organizzati a latere, è considerato da Paolo un servizio alla discordia. Il cristiano, quindi, obbedisce a quanto viene indicato dai missionari sia riguardo all’insegnamento del “vangelo” di paolo sia riguardo alle ricadute pratiche che ne conseguono e lo fa in quanto persona intelligente (φρόνιμος), ovvero “capace di discernimento” (10,15). Mangiare e bere il corpo e il sangue di Cristo è una conseguenza pratica di questa obbedienza all’insegnamento del vangelo; e se ciò fa nascere ed alimenta la comunione, il contrario alimenta la divisione e la discordia. Il senso della comunione si rafforza maggiormente attraverso il gesto del mangiare e del bere insieme durante la fractio panis, cioè l’eucarestia, ma inizialmente fare comunione vuol dire prestare ascolto e obbedienza a quanto viene insegnato dall’apostolo e dai missionari. Da questo ascolto umile ed obbediente nasce la fede per cui non ascoltando e non ubbidendo la fede viene meno o, addirittura, in sua vece nell’uomo si scatena la paura dell’altro, che lo porta ad attivare comportamenti egoistici e autoreferenziali. Così, dalla partecipazione individuale alla stessa pietanza e bevanda spirituale, ne consegue una sempre e più forte comunione all’interno della comunità: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,18); mentre dalla partecipazione ai banchetti sacrificali si contrae un modo di ragionare che si oppone alla vita insieme come fratelli e come sorelle, istigando alla divisione e all’isolamento.
Quanto è necessario, quindi, ascoltare e lasciarsi coinvolgere come persone intelligenti (φρόνιμος) nella “nuova” vita ispirata al vangelo che anche oggi la Chiesa insegna all’interno delle varie comunità? Può il semplice e umile ascolto, privo di ogni coinvolgimento critico, essere sufficiente al contributo missionario di ognuno in una chiesa che vorrebbe diventare “in uscita”? La comunione con Gesù Cristo, attraverso l’eucarestia, ha permesso nelle nostre comunità una crescita nella fede per un rapporto più profondo e sincero con Dio oppure il tutto è stato vissuto come un rito “vuoto” e senza significato per ognuno?
Spunti e appunti per una Lectio personale
Tracce di comunità
Geremia 30,22Voi sarete il mio popoloe io sarò il vostro Dio.
(Vedi anche Ezechiele 37,13; Giovanni 15,14; Atti degli Apostoli 7,36-38) [/expander_maker]